I Fratelli Liang – cento asini e centomila parole, da Ilario Fiore “Mal di Cina”

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I fratelli Liang: cento asini e centomila parole

Aveva dipinto un bufalo al guado e una ragazza che dalla sponda guardava una fòlaga scappar via volando verso ovest. Aveva dipinto anche un asino che giaceva brucando con la testa voltata all’indietro. Il gruppo dirigente della Rivoluzione Culturale aveva incluso i due quadri della mostra degli ” Artisti Reazionari “. L’autore fu accusato di voler corrompere la gioventù cinese istigandola al “culto dell’Occidente”. L’anitra che volava verso il sola al tramonto e l’asino con la testa girata sull’erba erano sinonimo di antisocialismo, di nostalgia del passato capitalista, di cattiva volontà verso il regime dell’Oriente Rosso.
Presero non solo i quadri del bufalo e dell’asino ma tutti quelli che potettero rinvenire e glieli esposero, per poi distruggerli con i coltelli sul piazzale di Tian An Men sotto le gradinate del Palazzo del Popolo; privato di ogni cosa, Huang Zhou fu mandato per sette anni in una Comune agricola nei dintroni di Pechino. All’inizio doveva raccogliere i liquami dei pozzi neri nella città vecchia, riempirne all’alba una botticella e, pedalando sul triciclo, trasportare il carico a quasi trena chilometri dal centro. “Sei un’artista del popolo?” – gli domandarono enfaticamente. Il povero artista deriso e inerme li guardò senza capire e gli squadristi rossi risposero per conto suo: “Allore d’ora in poi servirai il popolo!”.
Dalla raccolta degli escrementi notturni, rendendosi conto dell’infamante e stupida crudeltà inflittagli, lo trasferirono poi ad un’altra attvità. Il generale dell’esercito – Huang Zhou come pittore era distaccati presso il locale museo delle forze armate – lo avevano assegnato alla fabbricazione del formaggio di soia e il pittore suo amico fu incaricato di andarlo a vendere. Gli dettero un asino e un carrettino e per anni Huang Zhou, ammalatosi per gli stenti, l’umiliazione e il distacco dalla moglie e dai due figli, girò per i quartieri di Pechino con suo Platero grigio ed il carico di merce preziosa. Uscivano all’alba con i pacchettini di formaggio di soia e tornavano verso sera, stanchi morti tutti e due. Di lui, del suo asino, l’artista cinese avrebbe potuto dire come Juan Ramon Jimenez diceva di Platero: ” E’ piccino, peloso, soave. Lo chiamo dolcemente e lui viene verso di me, trotterellando allegro che sembra che rida. Gli piacciono i mandaranci, l’uva moscatello e i fichi scuri con la loro cristallina goccia di miele. E’ tenero e giocherellone come un bambino, però forte e secco di dentro, come di pietra o di acciaio”.
L’asinello di Huang Zhou aveva imparato a conoscere i bisogni e le abitudini del padrone. Rincasando alla Comune, il pittore si addormentava sul carretto e la bestia faceva tutto da sola. Sapeva attraversare i semafori col verde fino all’incrocio col Ponte di Marco POlo, dove sull’angolo di sinistra c’era una specie di osteria. Conoscenfo il gusto padronale per il moutai, si fermava cominciando a ragliare per svegliare Huang Zhou e dirgli che era tempo per il quotidiano bicchierino di grappa cinese di sorgo. Quando i ragli non bastavano, Platero si metteva di traverso col carretto e rinculando lentamente andava a sbattere contro il muro e la piccola scossa serviva da sveglia per il padrone. Al bicchierino di moutai, naturalmente, corrispondeva una zolletta di zucchero o un cartoccio di cibo messo da parte proprio per lui. Un giorno, l’incubo finì e Huang Zhou tornò a casa. Mesi dopo recandosi alla Comune per ritirare alcune cose rimaste, incontrò l’asinello che, come lo vide, si fermò sul ciglio della strada incurante degli incitamenti e delle frustate del nuovo partner, per salutare amodo suo l’ex venditore di formaggio. Riconosciuto e festeggiato con una bordata di ragli. HUang Zhou si commosse, corse ad abbracciarlo, affettuosamente gli parlò come al testimone della sua lunga sofferenza.
Quel giorno nacque Huang Zhou come pittore di asini, il più famoso pittore di somari di tutta la storia dell’arte cinese.
Nella tradizione della pittura dalle dinastie Sung e Tang in avanti, ci sono stati pittori divenuti celebri per aver dipinto cento cavalli come Xu Beihong, cento buoi, cento anatre, cento farfalle o cento gamberi come Qi Baishi. Ma nessuno aveva mai dipinto i cento asini di Huang Zhou: l’originale dello scroll fu regalato da Deng Xiaoping all’imperatore Hirohito durante la visita in Giappone; una sua aquila fu portata da Hua Guofeng al maresciallo Tito e un branco di bufali fu dato dallo stesso Deng al presidente Carter in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti.
Prima di quella che lui chiama “la disgrazia”, Huang Zhou, il cui vero nome è Liang Huang Zhou, era già uno dei migliori artisti della sua generazione, essendo nato il 12 Aprile 1925 in una cittadina della provincia di Hebei.
Dopo la “seconda Liberazione” – com’è definita la caduta della Banda dei Quattro – egli è l’artista prediletto di Pechino, per la sua bravura di artista e la sua cristallina onestà di uomo, ma anche per la riconoscenza dovuta a uno che ha sofferto come lui.
E’ tornato al suo posto al mueso dell’Esercito, l’hanno nominato vice presidente dell’Accademia e ha riavuto il suo studio. Eletto consigliere comunale per l’arte e l’ambiente, il suo ritratto di Zhou Enlai è quello ufficiale esposto nel museo della Rivoluzione. Nel suo modesto appartamento, al secondo piano di un blocco di residenze per dirigenti di partito e di governo, celebriamo la festa dell’incontro con l’effusione cinese e il giusto grado di calore latine che l’occasione merita. Huang Zhou mi abbraccia quando scopre che siamo nati entrambi in un Anno del Bue. Si allontana, va a prendere da uno scaffale l’ultimo libro della sua pittura e me lo dedica con un saggio da esperto calligrafo, definendomi suo ” Fratello in età”. Qual è il suo ultimo lavoro? Un’altra serie di cento asini: quella di prima era lunga quindici metri e alta quaranta centimetri, e gli asini in realtà erano soltanto novantasette. Con lui si parla sempre del suo animale preferito, che è anche il più popolare in tutta la Cina. Di lui e dei milioni di Platero che ne popolano le campagne è anche, credo, il massimo esperto del mondo. Possiede un’intera biblioteca di libri sull’asino, conosce i poemi che nei secoli sono stati scritti sulla bestia amica e fra i tanti mi cita l’apologo sul celebre ” Asino del Guizhou “. Dalla storia risulta che gli asini arrivarono in Cina molto tempo dopo i cavalli e i bufali. Il primo sarebbe appunto l’asino del Guizhou, la provincia del sud-ovest che si trova sull’itinerario seguito dalle carovane di mercanti in arrivo via India dai paesi arabi del Medio Oriente. Un giorno, secondo l’apologo, l’asino stava al pascolo in una radura presso il fiume. Dal bosco uscirono le tigri alla cui vista il ciuco preso dal terrore si mise a ragliare. Non conoscendo lo strano animale, le tigri fuggirono. Tornate il secondo giorno, quando le vide avvicinarsi, il somaro cominciò a scalciare preparandosi a un’inutile difesa. E anche questa volta le tigri scapparono nella foresta. Ma il terzo giorno, decise a chiarire la presenza dell’intruso, avanzarono con cautela e, dopo averlo circondato, se lo mangiarono in un sol boccone. “Io e te – disse Huang Zhou – siamo come l’asino del Guizhou, in effetti non poteva salvarsi. Come lui lavoriamo molto e mangiamo poco, ci accontentiamo di nulla e alla fine, dopo tanta fatica, non riusciremo nemmeno a sopravvivere!”.
La moglie che conosce un po’ d’inglese è l’interprete che gli spiega come in casa io tenga appesa da anni un suo quadro da me battezzato ” Madre col bambino”: la ciuchina, che allatta l’asinello e la testa bassa mezzo voltata all’indietro, se lo guarda con tenerezza e una luce negli occhi che soltanto le donne incinte prossime madri possono avere. Il paragone lo diverte perchè lui una vera madre col bambino l’ha dipinta secondo un modello manieristico d’influenza rinascimentale europea. Huang Zhou, infatti, è uno dei pochi pittori cinesi moderni nella cui opera si possono ritrovare elementi di una sintesi di valori comuni. La luce, l’uso dei colori, la tecnica del contrasto e il senso della prospettiva sono gli stessi che emergono dai suoi quadri, in maggioranza acquarelli, come da quelli degli artisti occidentali. Il gesto della madre e i calcolati rigonfiamenti del suo abito ricordano più il Tintoretto che il suo maestro Zhao Wangyun, o i classici Tang da lui studiati in gioventù.
Gli intelletuali cinesi colpiscono sempre gli europei per la finezza della loro educazione, che nasconde molto bene il loro complesso di superiorità passivo, distinguibile molto bene da quello attivo dei francesi. Quale pittore italiano, che non sia mai statop in Cina, saprebbe citare conversando tre nomi di grandi artisti cinesi del passato come Huang Zhou che parla di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, non dimenticando, dei contemporanei, maestri come Chagall e il mio amico Joan Mirò? Ecco dove nasce l’incanto di questo grande pittore e signore del sentimento che è Huang Zhou.
I suoi asini, come i cavalli di De Chirico, hanno i quarti di nobiltà nell’armoniosa bellezza dei loro movimenti sempre uguali e sempre diversi. Con la differenza che sono tutti dipinti su rotolo di carta di seta, non a olio ma a inchiostro, con abile mescolanza delle tinte, più difficile essendo fissarle sulla seta che sulla tela. Un critico, Shen Zongqian, ha scritto in un saggio dedicato a Huang Zhou: ” Il potere trasformante del suo inchiostro è appena visibile, com euna leggera foschia, quando è applicato su uno strato molto sottile; è lucido e brillante come un paio di grandi occhi concentrati; stranamente elusivo e iridescente quando l’inchiostro è adoperato con un pennello asciutto, mentre gocciola di colore se usato con un pennello bagnato; limpido come uno stagno d’autunno, luminoso come una collina in primavera, splendido come un fiore di mattino, delicato come fili d’erba nella rugiada dl campo. E mantiene il suo lustro negli anni, anche quando il passare del tempo avrà consumato la sua seta”.
Huang Zhou, naturalmente, ha dipinto migliaia di asini. Dice con modestia: ” Ne ho ritratti almeno tremila, eppure ogni volta che ne vedo uno vivo capisco l’inutilità del mio lavoro”. La sua umiltà di artista è disarmante, come avvincente risulta la generosità di uomo. La leggenda dei suoi cento asini è nota in tutta la Cina e anche fuori, da Tokio a New York. I suoi l’luìi sono riconosciuti a prima vista dai visitatori dei musei e delle gallerie di stato, non c’è ancora un cinese entrato a casa mia che, puntando lo sguardo verso gli asinelli del quadro, non pronunzi con rispetto il suo nome. Huang Zhou, a proposito della sua ” Madre col bambino ” dalle fattezze rinascimentali, fa notare che sul fondo ci sono due piccoli asini e rami di albicocco in fiore, volendo con ciò sottolineare la tipica ricorrenza dei motivi tradizionali della pittura cinese.
I suoi tremila asini sono dipinti in corsa nella steppa del suo amato Xinjiang o stesi sull’erba rada dei pascoli della provincia di Hebei, soli o in grupppo nel villaggio vicino a Tientsin, in fila indiana davanti a un passaggio a livello chiuso della ferrovia per Shenyang. La testa abbassata per fendere meglio il vento; gli occhi semichiusi nella luce dell’altipiano del Pamir dove dipinse uno dei suoi capolavori, ” Tempesta di neve nel deserto”; lo sguardo teneramente protettivo della madre; le grandi orecchie lunghe del ciuco addormentato; l’ubriacante teoria dei cento quadrupedi da soma senza basto e il forte stato di grazie dell’asino solo davanti al muro della Comune: sono infinite le pose dei modelli preferiti di Hiang Zhou, il qiadle non riesce, e non tenta nemmeno più, di spiegare criticamente la sua scelta. Si capisce che l’amore per il Platero del carrettino di formaggio di soia non fu improvviso, aveva radici misteriose, era gonfio di sentimenti inesprimibili.
Ecco un pittore che non dipingerebbe mai l’asino di Buridano incapace di scegliere. Quelli di Huang Zhou non sono inerti nè abulici di fronte alla realtà della terra cinese. Non hanno l’espressione ingrata o ignorante o sottomessa; sono vivi, uno diverso dall’altro, nascono da poche pennellate maestre per poi assumere connotati inconfondibili nella delicata sfumatura dell’inchiostro, sempre amabilmente vitali come qualcosa di piacevole che si stampa nella memoria. ” Quando lo guardo dal vero – dice ancora – mi sento punto dal dubbio di non aver saputo esprimere tutto quello che c’è in un asino!”. Come tradurre la sua forza di resistere alle avversità del clima della Cina del nord, la sua capacità di accompagnare l’uomo dietro l’aratro, la sua umiltà di compiere qualsiasi lavoro senza impuntarsi, come gli orgogliosi cavalli, e spesso solo per una manciata di paglia.
Abbiamo passato una giornata intera in mezzo ai suoi asini. Dopo aver girato senza una meta precisa tutte le campagne delle Comuni attorno a Pechino siamo arrivati in un tardo pomeriggio di fine inverno sulla strada di montagna che porta alla diga sovrastante le tombe Ming. Cercavamo asini da ore e ore. All’improvviso, dopo una ripida curva, nel vallone di un falsopiano, ne abbiamo scoperti a centinaia. Nel freddo vento siberiano, spalla a spalla, con le teste puntate a terra alla ricerca di un filo d’erba, gli asini aspettavano il loro pittore e poeta. Huang Zhou è sceso di macchina in silenzio e per un tempo interminabile si è nascosto in mezzo a loro. Li ha fotografati, li ha sbozzati, sui fogli di carta del suo album da lavoro, li ha accarezzati, forse uno ad uno dal primo all’ultimo. In mezzo a loro il suo volto si trasfigura come esposto a una mutazione quasi genetica e certamente sentimentale. L’ho guardato a lungo da lontano: la sua testa grossa, il suo corpo tozzo, capigliatura nera, mano robusta come il corpo guarito dopo anni di tribolazioni, occhio scuro intenso e, alla cinese, di palpebre sottili; si muoveva lentamente, senza accorgersi di noi e del mondo.
Come nel disordine del suo studio quando lavora, c’era da osservarlo in silenzio. De Chirico ha riportato i cavalli allo splendore della leggenza mitologica; Huang Zhou, vittima della moderna figlia di Erostrato incendiario della ” biblioteca di Alessandira”, sii’latra parte civile del pianeta, ha salvato ormai gli asini della distruzione delle tigri. Ha inserito gli asini nella sua costellazione e in quella della moltitudine dei suoi fratelli.

Abita a Tientsin in una delle vecchie row-houses della ex-Concessione inglese, l’ultima di una fila di quelle casette in mattoni rossi a due piani, scala e largo passamano di legno scuro, due alberi nel minuscolo giardino fra il cancelletto e l’ingresso, che si vedono nelle cittadine delle Midlands, esportate nell’epoca coloniale in tutti i quartieri europei dell’impero. Sen Guoyin, sua moglie, donna sorridente con due rari occhi rotondi neri e ballerini, aspetta sulla porta per condurmi di sopra, nello studio dove la visita improvvisa interrompe il suo lavoro, il secondo capitolo del nuovo romanzo cui si dedica da pochi giorni. Nel vicoletto cieco, un gruppo di bambini spara i botti rimasti dalla Festa delle Lanterne, l’equivalente cinese del nostro carnevale. A cinquanta metri, dalla strada principale, il traffico di primo pomeriggio è scarso; nello hutong è silenzio fitto dopo che i ragazzini hanno esaurito i mortaretti; il cileo di Tientsin, per un’ora, è pulito dallo smog che prende alla gola i passanti, sereno di pastello intenso, nella doppia luce dell’orizzonte terso fino al mare di Xingang.
Liang Bin mi accoglie da amico senza conoscermi. E’ più basso di Huang Zhou, ma la testa grossa è la medesima con una differenza. In confronto alla folta capigliatura del fratello pittore famoso, questa è rasata, da monaco buddista, orecchie grandi segno di longevità, naso abbastanza sviluppato per un cinese, sguardo penetrante di chi sa muoversi con attenzione e osservare con diligenza. Gli porto i saluti di Huang Zhou da Pechino: vivono a cento chilometri di distanza ma si vedono di rado. E’ dal maggio scorso, quando Liang Bin ha fatto un viaggio apposta per andarlo a trovare e adessoa Pechino c’è il figlio maggiore ospite dello zio. Questa estate sarà il turno di Huang zhou di venire a Tientsin. Presidente della locale federazione degli scrittori ed artisti, più vecchio di lui di undici anni, è autore rinomato e pittore a tempo perso, dice, ” per non rubare il mestiere a mio fratello”.
I due fratelli Liang, ecco la più celebre coppia di famiglia cinese, come De Chirico e Savinio a Roma, o William e John Faulkner a Oxford, Mississippi, con mestieri alleati, uno pittore e uno scrittore, o viceversa. Savinio, nel suo ultimo mutismo di pietra, qualche volta pensò di esser pittore anche più bravo di De Chirico; John Faulkner, una sera che avevamo asciugato fino all’ultima goccia la bottiglia di gin nella taverna sulla piazzetta, dedicandomi un suo romanzo sconosciuto, ” Un dollaro di cotone”, dopo avermi venduto un quadro a prezzo d’affezione, scappò a dire che se avesse fatto solo lo scrittore avrebbe bagnato il naso del fratello. Liang Bin scrive libri e poi dipinge fiori astratti dando ai suoi scrolls titoli bellissimi, dove si vede che lo scrittore domina la tela con caratteri calligrafici ricchi d’ispirazione. Gli racconto la storia delle coppie di fratelli artisti che ascolta col sorriso buono a mezza bocca, cerca uno dei suoi romanzi che Huang Zhou gli aveva fatto le illustrazioni, come per dimostrarmi gentilmendte che i fratelli cinesi non si fanno concorrenza, ma non lo trova.
Aggiunge che durante la Rivoluzione Culturale – sempre quella – ne fecero un’edizione levando i disegni del fratello condannato dalle Guardie Rosse.
E’ uomo sereno e scrittore di talento, robusto e delicato, forse per merito della sua biografia drammatica come quella di tuttii cinesi della sua generazione. Nato nel 1914 in un villaggio di contadini poveri vicino a Baoding, la vecchia capitale dell aprovincia di Hebei, Liang Bin dimostra più anni di quelli che ha, contrariamente alla maggioranza dei cinesi. E questo si deve alla sua salute poco buona e alle traversie di un’esistenza avversa: guerrigliero antigiapponese, commissario politico dell’Undicesimo Distaccamento, prigioniero del Kuomintang, qui finito dopo la battaglia di Tientsin nel gennaio 1949 contro le truppe nazionaliste, come ce l’ha raccontata l’ex-generale Tu Tienshi. Sono trent’anni che non si muove da questa casa silenziosa ma, come il protagonista del suo romanzo preferito, ” Stirpe di insorti”, non è mai riuscito, dice, “a tagliare le radici dell’albero della nostalgia per la sua terra”.
Parliamo per ore saltando da un argomento all’altro, l’America di Faulkner e Steinbeck, la Russia di Solgenitzyn e Simonov, le rivolte contadine cinesi che sono il suo tema di fondo, e quando ne parla la moglie Guoyin intercala il suo racconto con piccoli scoppi di risate gentili.
Anche nel matrimonio i due fratelli Liang si assomigliano. Huang Zhou sposò Cheng Wen Huei studentessa a Langzhou, quando lui teneva lezione di storia dell’arte all’Istituto del Gansù. E come Liang Bin sposò la sua lo racconta, dicendo che aveva scoperto per caso questa giovane “novantesima discendente del dottor Sen” di confuciana memoria. Fu durante la guerra civile nella parte nord della provincia di Hupei, al confine con l’Henan, nella Cina centrale. E’ una regione di foreste fitte e di corsi d’acqua impetuosi che si buttano nello Yang-Tzè; sulla riva destra del fiume c’era un villaggio di venti famiglie che di cognome facevano tutte Sen, da quello storico dottor Sen, mandarino potente sotto una delle dinastie degli Stati Combattenti, che nella vicina città di Sianyang aveva svolto funzioni di Primo Ministro.
Sen è un cognome oggi rarissimo in Cina e Liang Bin è contento di una moglie così, che lui conobbe bambina da partigiano alla macchia. I suoi genitori erano poverissimi contadini e “il Commissario”, che spesso si rifugiava nella loro casa di mattoni di fango secco, li aiutò perchè facessero studiare la figlia: a guerra finita, tornato al villaggio e ne ripartì con Guoyin come moglie. Un matrimonio felice con quatto figli e un approdo tranquillo dopo tante avventure legate al sanguinoso cammino della rivoluzione.
La favola della novantesima discendente del dottor Sen appare nel romanzo citato, “Stirpe di insorti”, dove Guoyin è descritta nei panni di Chunlan, una bambina che divora i libri e Liang Bin è Yan Yuntao, ufficiale comunista al seguito della “Spedizione Nord”. Come molte delle sue opere, anche questa è in parte autobiografica, e racconta dei contadini cinesi degli anni Trenta in lotta contro i proprietari terrieri difesi dalle “Camicie Blu”, i nazionalisti di Chiang Kai-shek. L’ambiente è quello del villaggio povero dominato dalla famiglia del landlord di padre in figlio.
“Anno dopo anno di inondazione e carestia, li forzavano a vendere fino all’ultima stanza, fino all’ultimo mu di terra”, scrive Liang Bin all’inizio del romanzo. “Era arrivato l’autunno, ma non c’era il carbone nel villaggio, nemmeno pagli anelle stoppie. Il fiume in piena schiumeggiava nella campgna aperta e il vento soffiava da nord-est. Nessuna famiglia aveva vestiti per l’inverno. Seduto sulla piazza davanti al tempio, Zhou Laogong si sfregava le ginocchia per riscaldarsi e sbadigliava dalla fame. L’aria gelida che veniva dal fiume Hutuò, dopo la diga delle Mille Leghe, sbatteva a terra le foglie rosse e gialle dei pioppi e a mezz’altezza galleggiavano i fiori bianchi della saggina”.
Liang Bin ha una pagina vera ma ispirata, un linguaggio ricco di iperboli contadine, di tono dolce-forte, inciso nel sangue povero e nel ricco humus della sua terra. Un po’ il Pavese de “La luna e i falò” e un terzo dello Steinbeck di “Furore”, secondo me, ma Pavese è il suo parente più prossimo. Glielo dico e Liang Bin si apre con lo stesso sorriso a cielo aperto del fratello Huang Zhou, in pittura come in letteratura rovesciano la stessa fantasiosa energia di artisti popolari, di origine contadina. Gli asini, i cammelli, i bufali sono quasi travasati con segli di scrittua altrettanto potenti dei colpi di pennello a inchiostro colorato. E dalla medesima sorgente vengono le espressioni proverbiali dei personaggi di Liang Bin.
“Zhou Laogong e Feng Lanchi intendevano battersi fino a che il coltello non venisse fuori rosso”, dice per spiegare una lotta all’ultimo sangue. Il suo dialogo è secco e colorito insieme. Un “vedremo, vedremo” è espresso col detto interlocutorio “Il fango ai piedi si vede sucendo dal fiume”. Un bambino che fende la folla “cercava la strada nel mucchio come un’anguilla nella sabbia”. Il vecchio genitore ha un viso simile a “una foglia gialla d’autunno”. Dice al figlio di non vendere l’ultimo mu di frutteto (un mu è il terzo di un ettaro) perchè “la terra è la radice della vita per la gente povera come noi”. Nel villaggio di salici e piopppi piegati dal vento, Zhou era “un vero figlio del suolo dei suoi avi, se perdeva le staffe somigliava al tuono in primavera”. Le donne dei suoi romanzi sono magre e sconsolate, misurano la loro grigia esistenza sulla crescita degli alberi attorno alla capanna. “Il mio sangue è come l’olio di una lampada, tutto consumato dalla nostalgia”, esclama la vecchia che assiste alla rivolta contro l’imposizione di una nuova tassa sulla macellazione suina. “Non è uno scherzo essere donna – continua – la prossima volta che nascerò, domanderò al re dell’Inferno che cosa sarò, e se mi dirà donna sceglierò di rimanere un fantasma nel limbo…”.
Liang Bin scrive all’ultima pagina della sua saga storico-sociale: “Invecchiando negli anni, i contadini appassivano, la pura lotta per l’esistenza finiva per uccidere in loro ogni sentimento. Diventavano spogli come vecchi alberi privati della pioggia di primavera e della rugiada dell’autunno. Zhou alzò gli occhi al cielo. Sulla sparsa distesa celeste nuvole dense si ammucchiavano e subito cambiavano forma nel vento. Pensando alla grande causa si disse con un sorriso esultante: – Che meraviglia! Hanno lasciato tornare la tigre alla montagna. – E quelle sue parole anticipavano l’onnipotente uragano che presto avrebbe spazzato tutta la pianura fino al grande fiume”.
Le giornate di lavoro di Laing Bin sono ordinate ma non monotone. Si alza presto la mattina, “quando a He Ping Lu – dice – non hanno ancora aperto la bottega”. Scrive quattro ore fino all’ora di pranzo, su fogli di carta di riso con le righe, nello studio dove la seconda metà del tavolo enorme è coperta da piante e fiori e alberi nani. I tre lati della stanza sono scaffalati da terra al soffitto con tutti i libri a portata di mano. Nel pomeriggio invece della siesta esce per la passeggiata, va all’ufficio dell’Unione Scrittori a sbrigare le pratiche, a vedere gli amici e a leggere i giornali. Oggi l’ho trovato a casa perchè è domenica, e la sorpresa non poteva essere più gradevole: “Un italiano che vive a Pechino amico di mio fratello!”. Ha il faccione buono invaso dal sorriso. “I cinesi si sono aperti su mondo e voi italiani, da Marco Polo in avanti, siete sempre stati gli amici fedeli della Cina; anche adesso – aggiunge – siete fra i primi a soddisfare il nostro desiderio di conoscere quel che succede fuori di casa nostra”. Mi irngrazia di esserlo andato a trovare e del lavoro che facciamo per diffondere nei rispettivi paesi le immagini e il racconto degli sforzi dei popoli per progredire in pace.
Così basso e tarchiato, il grosso crano quasi lucido, le spalle forti e larghe da contadino, anche nella parlata assomiglia a Huang Zhou. Parla adagio e filtra concetti molto asciutti. Anche in ciò è un cinese diverso, perchè i cinesi parlano a periodi lunghi, come se non sapessero l’uso della punteggiatura; intervistandoli, non si sa ai quando interromperli. E hanno dei giri di parole, delle sfumature di linguaggio, a seconda dei toni di ogni carattere che li costringono a ripetersi, intercalando esclamazioni, legando una frase all’altra con interiezioni di risposta. Sembrano come interlineature di un discorso unico, dicono all’oimprovviso “te-te-te”, o “caì-caì-caì”, “alà-alà-alà” che vanno per tutto, affermazioni, negazioni, conclusioni. Per questo Liang Bin che non ha un discorso tutto d’un fiato piò sembrare un taciturno e quando parla, Sen Guoyin e il figlio minore stanno ad ascoltare “il Commissario” come se fosse la prima volta che sentono dire certe cose.

Anche i suoi gesti lenti sono carichi di significato. Adesso si alza, cerca in un mucchio di scrolls arritolati un suo quadro e si fa aiutare dalla moglie a stenderlo, mentre il figlio gli porta la ciotola dell’inchiostro di china e il pennarello, e ci scrive sul lato destro, dall’alto in basso, la dedica. Nello studio si fa silenzio, aspettiamo che l’inchiostro si asciughi e ci guardiamo in faccia con un sorriso reciproco lungo, come un fotogramma fisso. Alla fine, prima di riavvolgerlo, mi spiega il titolo del quadro: “Buove bianche che escono dalla montagna”. Sono dei fiori di loto capovolti che sendono da un fondo nero sfumato, come di pastello. Dice che piacciono ai suoi amici guapponesi e americani quando passano da Tientsin. Me lo consegna e dice: “Così sarai il solo straniero in Cine ad avere appesi alla stessa parete i quadri di noi due fratelli!”. Lo abbraccio, pensando a quella frase di Unamuno ne “Il senso tragico della vita” che dice: ” Un uomo di carne e sangue, che è nato, soffre e muore, un uomo che è visto e udito, il fratello il vero fratello”.

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